© Elena Carta (@carta_elena)
La consegna
Ai confini della realtà (The Twilight Zone) è una leggendaria serie televisiva di genere fantascientifico trasmessa in tre diversi periodi dalla televisione americana. Il creatore fu Rod Serling, il quale nella serie degli anni ‘60 faceva scrivere gli episodi agli scrittori più famosi del periodo. Facciamo finta di aver avuto l’onore di scrivere un episodio per il primo periodo della serie (che a parer mio è il migliore).
Scrivete un breve racconto/sceneggiatura di sci-fi.
Giovanni (@giovanniarduino666)
I libri che librano
Da un po' di mattine mi sveglio con la pelle piena di taglietti, mi ricoprono il corpo, dalla cima della testa alla punta dell'alluce, non so a che cosa siano dovuti ma bruciano parecchio, mi sono rivolto al medico di base ma non sa che pesci pigliare e allora mi limito a disinfettarmi con due gocce di alcol, penso alle zanzare e subito mi dico che è una cretinata, quelle pungono soltanto e poi ormai è inverno, mi vengono in mente altre mille possibilità ma le scarto una per una, finché una notte, proprio questa notte, non mi sveglio di soprassalto, sento come uno sbattere di ali e mi ritrovo sul petto nudo uno dei miei libri aperto a metà, uno dei miei mille libri che stanno sugli scaffali della camera da letto, guardo assonnato e assieme stupito il volume che si muove da solo, le pagine che vibrano come ali di una libellula e aprono le tenui ferite nella carne, minuscoli morsi da vampiro, i fogli di carta piccoli rasoi affilati, e quando strizzo gli occhi per vedere meglio mi accorgo che altri libri stanno volando verso di me, silenziosi nella penombra, ecco perché non li ho mai notati, in genere ho un sonno pesante ma adesso capisco tutto, i libri stanno sferrando il loro ultimo attacco, mi ricopriranno e mi dissangueranno o forse mi risparmieranno per un paio di notti ancora, fino a quando non mi avranno divorato succhiato lappato come io ho fatto con loro, divorati succhiati lappati dalla prima pagina all'ultima, ancora e ancora librano su di me, forse non finirà mai, penso sconfitto mentre continua quel folle volo, non finirà mai questa tortura perché in fondo un libro è per sempre, una frase fatta che man mano acquista sostanza e verità, un libro è per sempre un libro è per sempre un libro è per sem
Igor (@gribyslab)
Paperwork
𝙻'𝚘𝚍𝚘𝚛𝚎 𝚍𝚎𝚕 𝚗𝚞𝚘𝚟𝚘 𝚕𝚞𝚋𝚛𝚒𝚏𝚒𝚌𝚊𝚗𝚝𝚎 𝚜𝚒 𝚖𝚒𝚜𝚌𝚑𝚒𝚊 𝚊 𝚚𝚞𝚎𝚕𝚕𝚘 𝚍𝚒 𝚚𝚞𝚊𝚕𝚌𝚑𝚎 𝚝𝚛𝚎𝚗𝚝𝚎𝚗𝚗𝚒𝚘 𝚏𝚊.
𝙷𝚘 𝚛𝚒𝚖𝚎𝚜𝚜𝚘 𝚊 𝚗𝚞𝚘𝚟𝚘 𝚞𝚗𝚊 𝚖𝚊𝚌𝚌𝚑𝚒𝚗𝚊 𝚍𝚊 𝚜𝚌𝚛𝚒𝚟𝚎𝚛𝚎 𝙾𝚕𝚒𝚟𝚎𝚝𝚝𝚒 𝙻𝚎𝚝𝚝𝚎𝚛𝚊 𝟸𝟸 𝚌𝚘𝚕𝚘𝚛 𝚐𝚒𝚊𝚕𝚕𝚘𝚟𝚎𝚛𝚍𝚎. 𝙰𝚙𝚙𝚊𝚛𝚝𝚎𝚗𝚎𝚟𝚊 𝚊 𝚞𝚗'𝚊𝚗𝚣𝚒𝚊𝚗𝚘 𝚍𝚎𝚕 𝚖𝚒𝚘 𝚙𝚒𝚌𝚌𝚘𝚕𝚘 𝚙𝚊𝚎𝚜𝚎 𝚕𝚒𝚐𝚞𝚛𝚎. 𝙸𝚕 𝚟𝚎𝚌𝚌𝚑𝚒𝚘 𝚟𝚒𝚟𝚎𝚟𝚊 𝚒𝚗 𝚞𝚗𝚊 𝚌𝚊𝚜𝚊 𝚒𝚗 𝚌𝚒𝚖𝚊 𝚊𝚕 𝚙𝚊𝚎𝚜𝚎, 𝚜𝚞𝚕𝚕𝚊 𝚌𝚞𝚛𝚟𝚊 𝚙𝚘𝚌𝚘 𝚙𝚛𝚒𝚖𝚊 𝚍𝚒 𝚜𝚌𝚘𝚕𝚕𝚒𝚗𝚊𝚛𝚎. 𝙷𝚘 𝚙𝚛𝚘𝚟𝚊𝚝𝚘 𝚊 𝚋𝚞𝚝𝚝𝚊𝚛𝚎 𝚐𝚒𝚞̀ 𝚊𝚕𝚌𝚞𝚗𝚒 𝚝𝚎𝚜𝚝𝚒, 𝚙𝚎𝚛 𝚕𝚘 𝚙𝚒𝚞̀ 𝚙𝚘𝚎𝚜𝚒𝚎 𝚙𝚎𝚛 𝚝𝚎𝚜𝚝𝚊𝚛𝚎 𝚕𝚊 𝚗𝚞𝚘𝚟𝚊 𝚌𝚊𝚛𝚝𝚞𝚌𝚌𝚒𝚊, 𝚏𝚞𝚗𝚣𝚒𝚘𝚗𝚊 𝚊 𝚖𝚎𝚛𝚊𝚟𝚒𝚐𝚕𝚒𝚊, 𝚚𝚞𝚊𝚜𝚒 𝚌𝚘𝚖𝚎 𝚜𝚎 𝚏𝚘𝚜𝚜𝚎 𝚗𝚞𝚘𝚟𝚊.
𝙻𝚊 𝚌𝚘𝚗𝚜𝚎𝚛𝚟𝚘 𝚊𝚕 𝚏𝚛𝚎𝚜𝚌𝚘 𝚗𝚎𝚕𝚕𝚘 𝚜𝚝𝚞𝚍𝚒𝚘 𝚍𝚒 𝚖𝚒𝚘 𝚙𝚊𝚍𝚛𝚎, 𝚜𝚘𝚗𝚘 𝚜𝚘𝚍𝚍𝚒𝚜𝚏𝚊𝚝𝚝𝚘 𝚍𝚎𝚕 𝚖𝚒𝚘 𝚕𝚊𝚟𝚘𝚛𝚘, 𝚌𝚒 𝚑𝚘 𝚙𝚎𝚛𝚜𝚘 𝚞𝚗 𝚙𝚊𝚒𝚘 𝚍𝚒 𝚜𝚎𝚝𝚝𝚒𝚖𝚊𝚗𝚎 𝚖𝚊 𝚗𝚎 𝚎̀ 𝚟𝚊𝚕𝚜𝚊 𝚕𝚊 𝚙𝚎𝚗𝚊. 𝙻𝚊 𝚙𝚊𝚛𝚘𝚕𝚎 𝚙𝚘𝚜𝚊𝚝𝚎 𝚜𝚞𝚕 𝚏𝚘𝚐𝚕𝚒𝚘 𝚒𝚗 𝚚𝚞𝚎𝚕 𝚖𝚘𝚍𝚘 𝚑𝚊𝚗𝚗𝚘 𝚞𝚗 𝚜𝚊𝚙𝚘𝚛𝚎 𝚍𝚒𝚟𝚎𝚛𝚜𝚘, 𝚜𝚎𝚗𝚝𝚒 𝚍𝚒 𝚊𝚟𝚎𝚛𝚎 𝚙𝚒𝚞̀ 𝚛𝚎𝚜𝚙𝚘𝚗𝚜𝚊𝚋𝚒𝚕𝚒𝚝𝚊̀ 𝚊 𝚜𝚌𝚛𝚒𝚟𝚎𝚛𝚎 𝚌𝚘𝚗 𝚞𝚗𝚊 𝚖𝚊𝚌𝚌𝚑𝚒𝚗𝚊. 𝚄𝚗𝚊 𝚟𝚘𝚕𝚝𝚊 𝚌𝚑𝚎 𝚕𝚊 𝚙𝚊𝚛𝚘𝚕𝚎 𝚎̀ 𝚕𝚒̀, 𝚗𝚘𝚗 𝚜𝚒 𝚌𝚊𝚗𝚌𝚎𝚕𝚕𝚊𝚗𝚘.
𝙻𝚊 𝙻𝚎𝚝𝚝𝚎𝚛𝚊 𝟸𝟸 𝚖𝚒 𝚎̀ 𝚜𝚝𝚊𝚝𝚊 𝚛𝚎𝚐𝚊𝚕𝚊𝚝𝚊 𝚍𝚊𝚕𝚕𝚊 𝚏𝚒𝚐𝚕𝚒𝚊 𝚍𝚎𝚕 𝚜𝚒𝚐𝚗𝚘𝚛𝚎, 𝚕𝚎𝚒 𝚗𝚘𝚗 𝚟𝚘𝚕𝚎𝚟𝚊 𝚜𝚊𝚙𝚎𝚛𝚗𝚎 𝚍𝚒 𝚝𝚎𝚗𝚎𝚛𝚕𝚊. 𝚂𝚘𝚜𝚝𝚎𝚗𝚎𝚟𝚊 𝚌𝚑𝚎 𝚏𝚘𝚜𝚜𝚎 𝚜𝚝𝚊𝚝𝚊 𝚕𝚊 𝚜𝚌𝚒𝚊𝚐𝚞𝚛𝚊 𝚍𝚎𝚕𝚕𝚊 𝚜𝚞𝚊 𝚏𝚊𝚖𝚒𝚐𝚕𝚒𝚊 (𝚒𝚕 𝚖𝚘𝚝𝚒𝚟𝚘 𝚙𝚎𝚛 𝚌𝚞𝚒 𝚒 𝚐𝚎𝚗𝚒𝚝𝚘𝚛𝚒 𝚜𝚒 𝚎𝚛𝚊𝚗𝚘 𝚜𝚎𝚙𝚊𝚛𝚊𝚝𝚒 𝚚𝚞𝚊𝚗𝚍𝚘 𝚊𝚗𝚌𝚘𝚛𝚊 𝚎𝚛𝚊 𝚋𝚊𝚖𝚋𝚒𝚗𝚊, 𝚕𝚊 𝚖𝚊𝚕𝚊𝚝𝚝𝚒𝚊 𝚝𝚎𝚛𝚖𝚒𝚗𝚊𝚕𝚎 𝚌𝚑𝚎 𝚊𝚟𝚎𝚟𝚊 𝚞𝚌𝚌𝚒𝚜𝚘 𝚜𝚞𝚊 𝚖𝚊𝚍𝚛𝚎 𝚙𝚘𝚌𝚘 𝚍𝚘𝚙𝚘 𝚕𝚊 𝚜𝚎𝚙𝚊𝚛𝚊𝚣𝚒𝚘𝚗𝚎 𝚎 𝚕'𝚒𝚗𝚌𝚒𝚍𝚎𝚗𝚝𝚎 𝚏𝚊𝚝𝚊𝚕𝚎 𝚍𝚒 𝚜𝚞𝚘 𝚏𝚛𝚊𝚝𝚎𝚕𝚕𝚘 𝚊𝚕 𝚕𝚊𝚟𝚘𝚛𝚘).
𝙸𝚘 𝚘𝚟𝚟𝚒𝚊𝚖𝚎𝚗𝚝𝚎 𝚜𝚘𝚗𝚘 𝚜𝚌𝚎𝚝𝚝𝚒𝚌𝚘 𝚜𝚞 𝚚𝚞𝚎𝚜𝚝𝚎 𝚌𝚘𝚜𝚎, 𝚌𝚘𝚖𝚎 𝚙𝚞𝚘̀ 𝚞𝚗 𝚘𝚐𝚐𝚎𝚝𝚝𝚘 𝚖𝚎𝚌𝚌𝚊𝚗𝚒𝚌𝚘 𝚒𝚗𝚏𝚕𝚞𝚒𝚛𝚎 𝚜𝚞𝚕 𝚍𝚎𝚜𝚝𝚒𝚗𝚘 𝚍𝚒 𝚗𝚘𝚒 𝚞𝚖𝚊𝚗𝚒? 𝚂𝚒𝚊𝚖𝚘 𝚗𝚎𝚕𝚕'𝚞𝚗𝚒𝚟𝚎𝚛𝚜𝚘 𝚍𝚒 𝚂𝚑𝚒𝚗𝚒𝚗𝚐?
𝚂𝚊𝚙𝚎𝚟𝚘 𝚍𝚎𝚕 𝚟𝚊𝚕𝚘𝚛𝚎, 𝚗𝚘𝚗 𝚜𝚘𝚕𝚘 𝚖𝚘𝚗𝚎𝚝𝚊𝚛𝚒𝚘, 𝚍𝚒 𝚚𝚞𝚎𝚕𝚕𝚊 𝚖𝚊𝚌𝚌𝚑𝚒𝚗𝚊. 𝙽𝚘𝚗 𝚌𝚒 𝚑𝚘 𝚙𝚎𝚗𝚜𝚊𝚝𝚘 𝚍𝚞𝚎 𝚟𝚘𝚕𝚝𝚎 𝚊 𝚙𝚛𝚎𝚗𝚍𝚎𝚛𝚕𝚊.
𝚂𝚝𝚘 𝚜𝚌𝚛𝚒𝚟𝚎𝚗𝚍𝚘 𝚚𝚞𝚎𝚜𝚝𝚘 𝚝𝚎𝚜𝚝𝚘 𝚞𝚜𝚊𝚗𝚍𝚘 𝚕𝚊 𝙻𝚎𝚝𝚝𝚎𝚛𝚊 𝟸𝟸, 𝚘𝚐𝚗𝚒 𝚙𝚛𝚎𝚜𝚜𝚒𝚘𝚗𝚎, 𝚘𝚐𝚗𝚒 𝚜𝚞𝚘𝚗𝚘 𝚛𝚒𝚕𝚊𝚜𝚌𝚒𝚊𝚝𝚘 𝚍𝚊𝚒 𝚖𝚘𝚟𝚒𝚖𝚎𝚗𝚝𝚒 𝚖𝚎𝚌𝚌𝚊𝚗𝚒𝚌𝚒, 𝚖𝚒 𝚙𝚛𝚘𝚟𝚘𝚌𝚊𝚗𝚘 𝚞𝚗 𝚙𝚒𝚌𝚌𝚘𝚕𝚘 𝚋𝚛𝚒𝚟𝚒𝚍𝚘.
𝙰𝚜𝚌𝚒𝚞𝚐𝚘 𝚞𝚗𝚊 𝚙𝚒𝚌𝚌𝚘𝚕𝚊 𝚕𝚊𝚌𝚛𝚒𝚖𝚊 𝚍𝚒 𝚜𝚞𝚍𝚘𝚛𝚎 𝚌𝚑𝚎 𝚖𝚒 𝚜𝚝𝚊 𝚜𝚌𝚎𝚗𝚍𝚎𝚗𝚍𝚘 𝚍𝚊𝚕𝚕𝚊 𝚏𝚛𝚘𝚗𝚝𝚎. 𝙱𝚞𝚝𝚝𝚘 𝚐𝚒𝚞̀ 𝚕'𝚞𝚕𝚝𝚒𝚖𝚘 𝚐𝚘𝚌𝚌𝚒𝚘 𝚍𝚒 𝚖𝚒𝚛𝚝𝚘 𝚎 𝚖𝚒 𝚊𝚕𝚣𝚘.
𝙻𝚊 𝚖𝚊𝚌𝚌𝚑𝚒𝚗𝚊, 𝚘𝚛𝚖𝚊𝚒 𝚏𝚎𝚍𝚎𝚕𝚎, 𝚙𝚛𝚘𝚜𝚎𝚐𝚞𝚎 𝚊 𝚋𝚊𝚝𝚝𝚊𝚛𝚎 𝚕𝚎 𝚕𝚎𝚝𝚝𝚎𝚛𝚎.
𝙾𝚛𝚊 𝚜𝚘𝚗𝚘 𝚒𝚗 𝚌𝚞𝚌𝚒𝚗𝚊 𝚊 𝚙𝚛𝚎𝚙𝚊𝚛𝚊𝚖𝚒 𝚞𝚗𝚘 𝚜𝚙𝚛𝚒𝚝𝚣 𝚎 𝚜𝚝𝚘 𝚍𝚎𝚝𝚝𝚊𝚗𝚍𝚘 𝚒𝚕 𝚝𝚎𝚜𝚝𝚘.
𝙷𝚎𝚒 𝚂𝚒𝚛𝚒, 𝚛𝚒𝚙𝚛𝚘𝚍𝚞𝚌𝚒 𝙱𝚊𝚌𝚔 𝚃𝚘 𝙼𝚎 𝚍𝚒 𝙺𝚊𝚗𝚢𝚎 𝚆𝚎𝚜𝚝.
𝙰𝚕𝚣𝚊 𝚒𝚕 𝚟𝚘𝚕𝚞𝚖𝚎 𝚍𝚎𝚕𝚕𝚊 𝚌𝚊𝚜𝚜𝚊, 𝚕𝚊 𝚋𝚊𝚜𝚎 𝚛𝚒𝚖𝚋𝚘𝚖𝚋𝚊 𝚙𝚎𝚛 𝚝𝚞𝚝𝚝𝚊 𝚕𝚊 𝚌𝚊𝚜𝚊. 𝙸 𝚖𝚒𝚎𝚒 𝚒𝚗𝚐𝚛𝚊𝚗𝚊𝚐𝚐𝚒 𝚜𝚘𝚗𝚘 𝚌𝚘𝚜𝚒̀ 𝚋𝚊𝚐𝚗𝚊𝚝𝚒 𝚘𝚛𝚊. 𝙸𝚕 𝚛𝚊𝚐𝚊𝚣𝚣𝚘 𝚑𝚊 𝚜𝚊𝚙𝚞𝚝𝚘 𝚌𝚘𝚖𝚎 𝚙𝚛𝚎𝚗𝚍𝚎𝚛𝚖𝚒, 𝚌𝚘𝚜𝚊 𝚝𝚘𝚌𝚌𝚊𝚛𝚎 𝚎 𝚍𝚘𝚟𝚎 𝚌𝚘𝚗𝚜𝚎𝚛𝚟𝚊𝚛𝚖𝚒. 𝚀𝚞𝚎𝚕𝚕𝚊 𝚟𝚊𝚌𝚌𝚊 𝚍𝚎𝚕𝚕𝚊 𝚏𝚒𝚐𝚕𝚒𝚊 𝚍𝚒 𝙶𝚎𝚘 𝚗𝚘𝚗 𝚌𝚊𝚙𝚒𝚟𝚊 𝚞𝚗 𝚌𝚊𝚣𝚣𝚘, 𝚕'𝚑𝚘 𝚘𝚍𝚒𝚊𝚝𝚊 𝚏𝚒𝚗 𝚍𝚊 𝚚𝚞𝚊𝚗𝚍𝚘 𝚎̀ 𝚗𝚊𝚝𝚊.
𝙱𝚎𝚊𝚞𝚝𝚒𝚏𝚞𝚕, 𝚗𝚊𝚔𝚎𝚍, 𝚋𝚒𝚐-𝚝𝚒𝚝𝚝𝚢 𝚠𝚘𝚖е𝚗 𝚓𝚞𝚜𝚝 𝚍𝚘𝚗'𝚝 𝚏𝚊𝚕𝚕 𝚘𝚞𝚝 𝚝𝚑𝚎 𝚜𝚔𝚢, 𝚢𝚘𝚞 𝚔𝚗𝚘𝚠?
Elena (@elena_carta98)
Mi sveglio, il cielo è ancora notturno, ma il freddo è talmente sopportabile che pare non esista. Dopo qualche inusuale manovra, il pullman oggi decide di aspettarmi direttamente sul prato davanti a casa, i fari freddi illuminano il vapore umido rilasciato dall’erba invernale. La calma mi pervade, salgo sul mezzo e dato che il viaggio si prospetta lungo, decido di distrarmi guardando fuori dal finestrino. Osservo gli infiniti campi bui, finché l’angoscia di una giornata senza inizio viene placata da fili di luci rosse che adornano una silenziosa città. Chiedo di scendere ignorando il motivo della mia sveglia, ma immediatamente me ne pento, l’incantesimo di ammirazione svanisce e così in preda all’ansia finisco per vagare nella città in cerca di un punto a me riconosciuto dal quale riprendere il viaggio.
Mi sveglio, mi dirigo verso la curva vicino a casa dove oggi il pullman ha deciso di aspettarmi. Pioviggina, il cielo è grigio e l’umidità mi infastidisce, il tragitto oggi è solo un lungo rettilineo senza fermate che viaggia a velocità costante immergendosi in un infinito banco di nebbia grigia. Non scendo per paura di sbagliare e per paura di chiedere, il viaggio dura ore e prosegue senza soste e senza cambiamenti.
Mi sveglio, oggi so che il pullman non mi aspetterà davanti a casa, percorro 10 minuti a piedi che mi separano dall’unica fermata segnalata. Il sole splende, è ancora mattina, ma ho l’ansia di arrivare in ritardo. Si fermano diversi mezzi pubblici, mai il mio. Le persone che sfruttano la fermata come discesa mi parlano ma non capisco cosa vogliono dirmi, sono infastidita nel vederli vivere mentre aspetto, tornare a casa non è un’opzione che posso prendere in considerazione quando il cielo è ancora chiaro.
Mi sveglio, prendo il treno con estrema facilità, non mi accorgo nemmeno di esserci salita ma mi rendo conto che non si ferma da troppo tempo. Il clima è piacevole come una fresca e timidamente soleggiata giornata di primavera, dal finestrino vedo un castello diroccato, chiedo di scendere, qualcuno mi ascolta e il treno si ferma. La struttura è irraggiungibile, voglio entrare ma riesco solo a vagabondare per un tempo infinito lungo il suo perimetro. Salgo nuovamente sul treno per ammirarlo rimpicciolirsi.
Mi sveglio, ricordo di avere la patente e la macchina a mia disposizione, prima di iniziare il viaggio devo però caricare delle persone alle quali avevo, chissà come, promesso un passaggio. La prima non mi dà particolari problemi se non che il tragitto per la seconda casa lo percepisco più lungo e pieno di tornanti. Il tempo scorre e mi rendo conto di essere già in ritardo. Riesco però ad arrivare a casa della seconda persona, lei deve ancora prepararsi, si era forse dimenticata del mio favore, mi arrabbio e cerco di velocizzare il suo processo di vestizione e preparazione ma sembra non interessarle, scompaio nella conversazione e vago con la testa e con il corpo, persa nella sua abitazione.
Mi sveglio.
Giacomo (@giacomo.pirovano)
PORTA AOSTA
Una sera di giugno del ’23. L’acqua incessante, i lampi istantanei e i colori che ho ancora davanti alla mio sguardo: il blu, il nero, il giallo, l’oro dei fari e dei lampioni. Su uno di questi svettava, tra le tante, una bandiera ucraina, uguale a quella dei Credendari di Porta Aosta, proprio tra la pompa di benzina e l’angurioteca che ogni estate muta il parcheggio di Piazza Mercato.
Ci riparammo sotto la volta del passo carrabile a fianco dell’Agenzia Pratiche Auto. Quei pochissimi metri quadrati in leggera pendenza erano racchiusi da un cancello alle spalle e da un muro d’acqua di fronte a noi: la nostra gabbia di salvezza. Come dietro a una cascata potevamo vedere la mitica statale 26 trasformarsi pian piano in un fiume, una seconda Dora che correva impetuosa giù dalla Valle verso sud-est. I pochi veicoli ci gettavano frustate d’acqua al loro passaggio, ignorandoci. Di fronte a noi alcune auto posteggiate al piècastello, l’oscuro parcheggio a due piani. Erano solitarie creature metalliche esposte a tutte le intemperie di quella notte eterna, e forse una qualche loro forma di coscienza pregava che non grandinasse.
Passavano le ore e la tempesta non cessava, poi passarono direttamente i giorni e i decenni. Sono ancora qui, sotto la volta del passo carrabile, sempre più paralizzato e scomposto in questi pochi metri quadrati pendenti. Continui a essere al mio fianco, nella mia stessa condizione, ma non possiamo più comunicare. Sei un’ombra, solo più una memoria. Tutto il nostro mondo è un quadrato di liquido incessante: la strada fluviale qui davanti, l’oro dell’illuminazione pubblica, le poche auto inerti sotto i venti e l’acquazzone, ai piedi delle rosse torri che svettano scheggiate e superbe nel cielo nero di tanto in tanto improvvisamente acceso.
Allora consiste proprio in questo varcare quel confine della realtà. Forse cessare di esistere è proprio come te lo immaginavi tu da bambina: un eterno fermo immagine su un quadro di verità, l’ultimo che gli occhi ancora vivi hanno potuto cogliere, e che si perpetua in una qualche forma di coscienza mentre tutto il proprio corpo, immobile e pensante, si decompone senza poter mai più agire. Non ci sono più, sono fermo di fronte al cataclisma di quella notte di giugno del ’23, per sempre a fianco della tua inesistenza.
Zamu (@mister.zamu)
Ero uno degli ultimi sopravvissuti del progetto “Megaloma”, vivevo nel Vallone Del Roc, cercando di estraniarmi dal mondo, riposarmi e ricordare quei giorni che furono. Vivevo in una borgata abbandonata, appena ristrutturata. La società ormai era degenerata e fallita. Mi avevano risparmiato solo perché li avevo creati, ma mi era stata tolta qualsiasi possibilità di riprodurmi. Sarei rimasto l’ultimo uomo sulla terra.
Mi ricordo ancora i primi inizi, le prime intelligenze artificiali, i primi robot, i primi passi dell’uomo nella tecnologia che avrebbero portato alla sua disfatta. L’uomo è un essere orgoglioso, avido, egocentrico, che ama vedersi specchiato ovunque. Credo queste siano proprio le ragioni per aver creato “Megaloma”. Il progetto consisteva in un robot simile a un umano preistorico, lasciato su un'isola, con un'intelligenza artificiale nel suo cervello. Si voleva studiare l’evoluzione dell’uomo da vicino, comprendendo maggiormente noi stessi. Avevo utilizzato tutti i miei studi e tutta la mia conoscenza per guidare il progetto.
Nessuno si sarebbe aspettato una fine simile, uno sviluppo così rapido del primitivo. In poco tempo fu capace di costruire altri suoi simili, si evolse più rapidamente del previsto. Avevamo instillato nel suo subconscio di uccidere il più grande nemico della terra, di eliminare tutti i suoi mali. Da stolti avevamo pensato all’inquinamento, alle malattie; nessuno si sarebbe aspettato che avrebbero riconosciuto proprio noi come male maggiore.
Risparmiarono solo me, grati di avermi identificato come creatore. Passo le mie ultime giornate qui, tra un pezzo di Fontina delle mie capre e ubriacandomi con l’acqua di una fontana, e spesso mi chiedo se siano loro ad aver avuto davvero ragione. Sento solo calma, nessuna guerra più avvenuta nell’umanità.
Mi chiedo, se abbiano ragione loro.
𝐷𝜇𝜌𝑙𝜀𝜘 𝜌𝜎𝜀𝜏𝜄𝑐𝛼
29 gennaio 2024 - 12 febbraio 2024
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