Affondo le dita nel terreno. Avverto la terra entrarmi nella fessura delle unghie.
Sono seduta qui da più di mezz’ora, incantata a fissare la varietà della vegetazione
del piccolo bosco che si trova dietro quella che era la casa dei miei genitori.
Riesco a sentire il vociare dei parenti provenire dall’abitazione. Stiamo
aspettando che arrivi il carro funebre dall’ospedale con le salme per poi dirigerci al
cimitero.
Alzo la mani dal terreno portandomi dietro della terra umida, una parte resta
attaccata al palmo per poi cadermi sulla maglietta come se fosse neve scura.
Gli occhi mi si caricano di lacrime ma non ho voglia di lasciarne andare altre, sono
due giorni che vado avanti, mi sento esausta.
Il cielo è un perfetto dipinto di un pomeriggio autunnale, le nuvole grigie si
alternano a alcuni raggi del sole. Qualcosa dentro di me mi suggerisce che quello è
lo stesso cielo che stanno fissando anche mamma e papà. Perché se davvero
esiste vita dopo la morte allora di sicuro il meteo di quelle valli sarà sempre il mio
preferito, quello dell’autunno. Né troppo caldo né troppo freddo.
Stringo le braccia al petto in una sorta di abbraccio a me stessa, sfrego gli
avambracci per riscaldarmi un poco. L’aria è diventata più fresca, frigida.
Mi riporta alla mente l’istante in cui ho poggiato la mia mano su quella della
mamma e l’ho sentita per la prima volta, nella mia vita, immobile e ghiacciata.
Avrei voluto mostrarvi ancora tante cose mamma e papà
Fisso i piccoli steli d’erba di fronte a me, ho le chiappe congelate dall’umidità.
Probabilmente avrò anche i pantaloni bagnati. Ma non importa.
Rialzo lo sguardo e ritorno a fissare la vegetazione.
Ho quasi memorizzato tutti i dettagli, potrei farne un dipinto.
Sulla sinistra svariati noccioli ancora carichi di foglie, di fronte a me altre piante di
cui non conosco il nome con il fogliame che sta variando di colore. Sulla sinistra
alcuni piccoli esemplari di Sternbergia e dietro di loro un piccola montagna di felci.
Ai piedi di tutta questa vegetazione sono presenti foglie di diversi colori e forme.
Il mio momento di pace viene interrotto da qualcuno che sbraita il mio nome:
«Dalila! Dalila! Dove sei?»
È zia Carla.
«In giardino zia, adesso rientro!» le rispondo, sbraitando.
Mi alzo di malavoglia, ma non voglio rischiare di prendermi un malanno.
Procedo in direzione della casa ma dopo pochi passi mi fermo e, senza nessuna
ragione particolare, decido di tornare indietro per stare ancora un po’ all’aria aperta.
A differenza di prima, questa volta voglio inoltrami nella boscaglia e non limitarmi al
giardino di casa
All’estrema destra del perimetro la recinzione ha una piccola apertura in cui ci si
riesce a infilare abbastanza facilmente.
Io e mio fratello Paolo ci andavamo sempre a giocare da piccoli, all’inizio era un
piccolo foro in cui ci sarebbe passato solo un bambino ma nel tempo l’abbiamo
allargato e continuato ad usare. Durante il liceo, ad esempio, mi nascondevo nel
boschetto per andare a fumare con le amiche.
Procedo tra le sterpaglie e una volta entrata mi sembra di aver varcato le tende
di un teatro. Mi convinco che la posizione delle piante sia sempre stata quella.
Provo una punta di nostalgia e mi pare che non sia passato un solo da giorno da
quando avevo cinque, sei anni o da quando ne avevo sedici. Come se tutti quei
momenti fossero avvenuti contemporaneamente nello stesso istante.
Ma una volta che le esperienze diventano solo più ricordi non danno questa
impressione?
Che non ci sia distanza temporale tra quando avevo compiuto otto anni e avevo
ricevuto il libro per bambini di Jules Verne o quando ne avevo compiuti diciotto e
avevo avuto una brutta avventura con la bottiglia di Jägermeister.
Nella mente tutto si avvicina, i ricordi si mischiano e abbiamo accesso a loro
senza particolare fatica.
Proseguo per qualche metro. Sotto i miei piedi sento rompersi piccoli rami come
se fossero tante piccole ossa che si spezzano. L’odore di sottobosco si fa più forte.
Chiudo gli occhi e inspiro a lungo quell’aroma di casa, di vita, di sogno.
Una volta riaperti vedo una piccola mano poggiata al tronco di qualche albero
più avanti rispetto alla mia posizione.
Ho desiderato così tanto tornare a quei momenti che gli occhi me li fanno
materializzare
Mi dirigo verso il tronco, la manina è sempre lì appoggiata. Ogni tanto si stacca
per poi riappoggiarsi rapidamente come se il piccolo essere umano stesse
tentando di mantenere l’equilibrio. Una volta arrivata in prossimità dell’albero
distinguo quella che è in modo indiscutibile la mia figura da bambina.
«Hey! » provo a chiamarla.
La bambina, IO STESSA, si gira e mi guarda. La sua vista è centrata suoi miei
occhi. Sento il respiro smorzarsi, il battito cardiaco accelerare e rallentare in poco
tempo.
Dopo qualche istante si rigira e riappoggia la mano sul tronco, sta cercando di
togliersi delle foglie secche che si sono incollate alla suola della scarpa. Mi avvicino
e l’aiuto. Le pulisco anche il retro della giacca e noto che i pantaloni sono umidi
negli stessi punti dei miei.
La piccola mi porge la manina, gliela stringo. La bambina inizia a camminare
dritto di fronte a noi per poi svoltare sulla destra in un punto del boschetto
nascosto da innumerevoli felci.
Quello che si presenta di fronte ai miei occhi ha dell’incredibile.
Vedo raggruppati in quell’angolo tutti gli istanti più belli che ho vissuto immersa
in quella vegetazione.
Mi rivedo quando giocavo di malavoglia con i soldatini e mio fratello, quando ho
fumato la prima Marlboro con Barbara, quando correvo scalza con Paolo nella
nostra immaginaria pista (ci eravamo impegnati a rialzare le curve “come nei circuiti
delle NASCAR, per avere maggiora velocità e tenuta”), quando ho scambiato il
primo bacio con Nico e altre decine di ricordi.
Tutti materializzati nello stesso istante di fronte a me.
La bambina mi teneva ancora la mano e, dopo avermi lasciato ammirare quei
ricordi, mi riconduce al posto in cui ci siamo trovati.
Improvvisamente qualcosa le fa prudere il naso e nel cercare di scacciarlo si
procura un buffo segno sul volto sporcandosi con la terra.
Mi inginocchio e la pulisco, di nuovo. Le poggio una mano sulla spalla e la fisso.
Il cuore mi si riempie gioia.
Qualcosa dentro di me si ricarica, qualcosa che si era rotto si mette a posto.
L’avvicino e la stringo in un abbraccio fino a quando la bambina, senza dire nulla,
si slega dalle mie braccia e fugge nella direzione opposta rispetto a dove siamo
andati prima.
Mi pulisco le ginocchia, ho macchiato anche il fronte dei jeans. Fantastico.
Risalgo la piccola salita che porta al boschetto, attraverso l’apertura delle
recinzione e torno in casa dalla mia famiglia.
Prima di chiudermi la porta d’ingresso alle spalle, però, mi soffermo a guardare in
direzione del boschetto.
La piccola Dalila è in piedi, orgogliosa, sembra una Guardia svizzera in miniatura.
Buffissima.
Le alzo distrattamente una mano in segno di saluto.
Lei ricambia per poi tornare di corsa nel sottobosco.
Come se tutti quei momenti fossero avvenuti contemporaneamente nello stesso
istante.
Ma una volta che le esperienze diventano solo più ricordi non danno questa
impressione?
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