📸 Griby's Lab
Zamu:
Un esercizio di copywriting assolutamente da provare!
La creatività e la scrittura sono come dei muscoli che possono essere allenati, ma in questo caso non si usano dei pesi da bodybuilder, ma degli esercizi altamente mirati.
Io ho sempre amato questo esercizio: apri il dizionario e annota la prima parola che ti capita sotto gli occhi. Ripeti lo stesso processo per quattro volte. Ora, scrivi una breve storia collegando le cinque parole che ti sono capitate.
Con questo esercizio la tua fantasia verrà messa sotto sforzo, chissà se produrrai la prossima divina commedia o semplicemente una storia con un contenuto altamente esilarante!
Valerio (@valeriodedonno)
Parole estratte: Scoperta
Insufficiente
Fine
Presto
Steso
La prima fase della missione spaziale, quella più critica, volgeva al termine. Avvicinarsi a sufficienza a Giove, il gigante e gassoso abitante del nostro Sistema Solare, abbastanza da entrare in un'orbita stazionaria intorno ad esso, era ormai una preoccupazione superata per un Veterano come lui. Poco più di un'avventura come tante altre, ma questa volta un po' più distante da casa e, per giunta, in solitaria. Non era ancora il momento di lasciare la mente libera di destreggiarsi autonomamente tra una digressione e la successiva. Prima le cose importanti. Un paio di giri intorno al pianeta più grande del Sistema, fionda gravitazionale e a seguire impulso ai motori con un tempismo impeccabile per abbandonare l'orbita e fare ritorno a casa. Dopo qualche altro anno di viaggio, naturalmente.
Avviso sulla strumentazione di bordo.
Giove è noto per le sue tante Lune, ma le conosciamo tutte da tempo. Eppure, quel piccolo corpo celeste non dovrebbe essere lì... e non è tutto. La diagnostica da remoto rileva anche tracce della sostanza più importante, a noi conosciuta, sulla superficie di quel piccolo corpo celeste che fino a quel momento aveva vissuto al riparo dagli sguardi indiscreti del genere umano.
Acqua.
Ci può essere acqua su una Luna di Giove? Possiamo non esserci accorti dell'esistenza di questa Luna per secoli? Può quella piccola scheggia di roccia ospitare la vita, in barba agli altri giganti inquilini del Sistema Solare, ad esclusione della Terra? Le domande affollano la mente del Veterano, ma una sovrasta e silenzia le altre: cosa fare? Portare a termine la missione ed aggiungere un piccolo pezzo all'interminabile puzzle della conoscenza scientifica, oppure sfidare la sorte a "testa o croce" tentando di assemblare un'intera sezione di quel puzzle grazie ad una potenziale scoperta di portata inimmaginabile per l'umanità, correndo però il rischio di divenire l'unico responsabile del buco nell'acqua più grande mai compiuto dalla razza umana? La certezza è una sola. Dirigersi verso quella Luna sarebbe un suicidio, a prescindere dal risultato. Il carburante sarebbe insufficiente per permettere all'astronave del Veterano di sfuggire alle grinfie della gravità del piccolo corpo celeste, per quanto debole possa essere.
La lotta del Veterano con sé stesso culmina con la vittoria del suo Io avventuroso, altruista, ma anche smanioso di fama e grandezza. Quel suo ultimo viaggio lo avrebbe presto portato, contemporaneamente, ad una morte solitaria a milioni di chilometri dal proprio pianeta nativo e all'immortalità per mezzo della memoria senza tempo del genere umano. L'astronave è già diretta inesorabilmente verso la piccola Luna, la cui superficie ospiterà gli ultimi anni di vita di un uomo che la renderà fulcro degli studi scientifici che l'umanità porrà in essere nel prossimo futuro.
Steso su uno dei sedili dedicati all'equipaggio della nave, questa volta composto da lui soltanto, il Veterano attende che il pilota automatico lo conduca a quella che sarà la sua casa fino alla fine dei suoi giorni, dalla quale invierà alla Terra report periodici su ciò che scoprirà, affronterà e vivrà sul nuovo mondo.
Giacomo (@giacomo.pirovano)
Parole estratte: Fràncone Ombrello Socialismo Gongolante Dimostrativo
Dal belvedere della certosa di San Martino
Napoleone - Lacrime a Mare https://open.spotify.com/track/0o5BopKZWtoDKYdwmWgNJF?si=90c3dfdcc817475b Non è vero, non è stata una totale delusione quella città. Sebbene nel cosmo non si sia ancora concluso il moto di rivoluzione terrestre, sento distanze epocali fra me e quelle immagini.
Quell’universo l’ho visto lassù. Un immenso ombrello nero racchiudeva, tra rilievi e depressioni di vichi impensabili, eterne scale, antri, sudiciumi vivaci sullo scuro caliginoso del basolato, carte sporche - come cantava Pino -, palazzi segreti (Palazzo Venezia) che schiudono verità mai immaginate, viali eterni e stradoni di traffico sregolato a rette e curve… che cosa? Tutto l’affastellare caotico di pazze fantasmagorie, di scempi abusivi e d’antichità inestimabili, di complessità d’elementi dei rioni poveri e criminosi, come fili, teli, panni, mille colori, muri scrostati, imbrattati, zeppi di manifesti, sottoterra o in alto, ai vertici dei colli, al cospetto di quel maledettissimo golfo tirrenico.
Un mare che, come canta Napoleone, lacrime e mare sono una cosa sola. Poi c’era quel luna-park obliquo del porto di notte e del suo lungomare elettrico, coi suoi immensi vascelli d’acciaio in partenza o in attesa: se fossero stati portaerei, sarebbero subito scattate grandiose suggestioni atlantiste. C’erano poi i bagliori tra le stelle invisibili di quel firmamento moro, appena sfumato nella canicola che risaliva dal ribollire dei luminosi righi urbani. Scendevano come bianche meteore stanche, come esausti e flebili fuochi di segnalazione che gravitano molli verso il suolo: si spengono in seno a Capodichino per perpetrare una giostra eterna e lenta, sorvolante Sanità, Spaccanapoli, che sale e sembra Medellín, e vomita pagane pulsioni mai sopite, il centro di Via dei Tribunali e dei ragazzi di vita, dei ciclomotori tripilotati e senza casco, delle terrazze lussureggianti, delle cene sotto pergole improvvisate in piazze sbilenche, fessure in mezzo a dimore tinte d’acre, d’antica nobiltà, poi ripopolate - così ci raccontavano gli autoctoni a Banchi Nuovi -, animate da piatti colmi di genovese e rraù, di quel semplice mondo di gusto che chiamano pizza, e dei vini ‘di (F)ermo’.
Ecco, forse questo ginepraio sintattico, quest’ammasso di «Quante cosse!», di parole, come quella città, potrebbe essere dimostrativo del fatto che solo un debole organo come il cervello umano può concepire una tale forma di scrittura creativa, difettosa, impossibile per la perfetta intelligenza artificiale.
Quell’abbracciante teatro notturno del belvedere di San Martino, arginato dalla balaustra scheggiata e butterata dall’acne del tempo, abbruttita da numeri, cuori e dichiarazioni, su cui appoggiammo il surrogato della nostra cena scelta da altri (panuozzo di verdure, e forse Margherita, dell’astuto chiosco gourmet lì vicino), doveva rappresentare, per noi due, l’ultimo autentico momento di condivisione visiva, mentre davamo le spalle al bianco afoso della certosa, a Castel Sant’Elmo in cima, seppia e superbo, a quel paio di musicanti, una acustica, forse una voce, che raccoglieva un po’ di turisti e di orgoglio cittadino. E invece una gongolante presenza non dava tregua: una consapevolezza inascoltata, con quella calata fedifraga, mi raccontava tutte le cose che non volevo ammettere mentre passavo tutto in cavalleria (dicevo solo: adès ancamiņu, adès ancamiņu… ).
Mi lasciavo invece accompagnare per le sere agostane da un’esuberante Cicerona. Mi pervadeva un sereno, febbrile, stanco abbandono alla purga dei sudori, come accade dopo una calda giornata massacrante, quando comincia a scendere il sole e dopo la doccia si è piacevolmente rimbambiti per via di una sorta d’influenza. Si sta dunque seduti e fasciati, nel languore, a sorridere delle cazzate di chi ha dormito tutto il giorno. Un totale ignorare poi, come fossimo stati in pieno socialismo di guerra, dei dolori alla giuntura del ginocchio, che mi obbligava a zoppicare come uno dei tanti mendicanti per le strade rotte e tra i vasci, che mi urlava qualcosa, che, come un corno fràncone, lanciava acuti a ogni passo. Ero nella retroguardia della nostra storia, braccato in un’imboscata che non volevo ammettere; ma nessun mio Signore, nessun re Carlo, grande e forte come una montagna fumante, sarebbe corso in mio aiuto.
Greta (@gretaabrunoo)
Parole estratte: Idiozia
Argine
Presbiterio
Salsiccia
Tuttologo
E così come Sisifo spinge la roccia fin sul cucuzzolo della montagna, il macellaio Stefano riempie una salsiccia alla volta. Ma tanto si sa: «La carne è carne.»
Questa frase continuava a riecheggiare nella mente della povera perpetua, Maria, che con un ultimo slancio vitale si era inginocchiata all'altare del presbiterio per ricevere la benedizione.
«MADRE DI DIO.»
Un urlo disperato proveniente dal tuttologo Samiro, quando Maria gli raccontò del fiotto di latte di cocco ricevuto il giorno prima.
"Al tuo posto mi lancerei da un argine. "
"Prego, se ci tieni.. Questa è l'Italia, Samiro."
"Che idiozia. "
Teodora (@teodora.anton)
Parole estratte:
Alberi
Cosa
Infelice
Striata
California
Mi guardo attorno
Infelici,
i salici piangenti
Con gli alberi vicini
Urlan stridenti.
Nei caldi campi della California
Crean questa cosa striata sul cuore che
potremmo chiamare,
Per qualcuno: primavera;
Per gli altri: colerica preghiera.
Igor (@gribyslab)
Parole estratte:
Indotto
Occhione
Brossura
Metro
Visibilità
Sapevo. Lo sapevo.
I miei me l’avevano fatto giurare da piccolo: “Non leggere mai il libro con l’occhione in copertina”.
Ero riuscito a resistere per tutta la vita, ma la sera della morte di mia madre cercai conforto in quel volume.
Lo recuperai dalla libreria di mia madre, in uno di quei mobili di legno degli anni ’60 con una pessima illustrazione floreale sul lato.
Come una crescente passione irrefrenabile, iniziai a scorrere le dita sul bordo del libro brossurato. Infilai le unghie all’interno. Lo girai e rigirai, senza però mai aprirlo. Era un vero e proprio oggetto del desiderio.
Le lacrime per mamma scorrevano sul mio volto con lentezza, ogni centimetro di quel volume mi riportava a qualche ricordo dell’infanzia. A quelle serate invernali in cui fuori fa un freddo cane e tu sei seduto sul pavimento della sala a giocare con le Hot Wheels. La mamma è in cucina che canticchia un motivetto che non conosci, ma che ti fa stare bene. Quei flash di ricordi d’infanzia che ti affiorano ogni tanto nel corso della tua vita, ingombranti e improvvisi come quando sei in sala d’attesa dal dentista e parte un video a tutto volume scorrendo il feed di Instagram. Parole e immagini fuori contesto, che ti infastidiscono.
Decisi di sedermi nella poltrona di papà, in attesa che arrivasse il medico per certificare la morte.
L’occhione comune (o Burhinus oedicnemus) è un uccello dalla corporatura massiccia, becco robusto e lunghe zampe da corridore. Il nome deriva dai grandi occhi gialli che lo caratterizzano. Emette il famigerato verso "turlip", nelle ore serali, dopo che il sole è quasi tramontato.
Me lo ripetevano spesso i miei, e queste informazioni non facevano altro che aumentare ancora di più la curiosità nei confronti di quel libro.
Ebbi la tentazione di aprire la copertina, di leggere solo la prima pagina.
Ma come hai fatto a mantenere quella promessa anche da adulto? Non aprire un innocuo libro, che cazzo ci può mai essere di così pericoloso? Foto compromettenti di mamma e papà?
Dai, per piacere.
Voltai la copertina e la realtà attorno a me ruotò per un attimo.
Suggestione.
Le prime pagine erano tutte bianche, fu solo alla quarta facciata che vidi qualcosa: un’illustrazione in bianco e nero di un piccolo d’occhione. La vista mi si annebbiò per un breve istante, diedi la colpa alle lacrime e proseguii nel voltare le pagine avido di curiosità e di parole da leggere.
Dopo l’illustrazione il libro proseguiva soltanto con facciate bianche, l’unico segno erano il numero di pagina posto nell’angolo in basso.
«Cioè è un diario vuoto? Un libro d’arredo?»
Continuai a voltare le pagine, una per volta, per paura di perdermi qualcosa.
Fu verso la tredicesima che la vista mi si annebbiò di nuovo e venni colto da un flash di ricordo che mi diede una sensazione di déjà vu.
Una ragazza bruna di nome Emmanuelle, viveva con me in una palafitta di legno lungo una spiaggia della Spagna del sud. La stavo abbracciando, un aborto e una casa in fiamme.
Rinvenni come se svegliato di soppiatto da un’incubo.
Ripensai all'arrivo imminente del medico, guardai l’orologio ed erano passati circa cinque minuti da quando mi ero seduto a leggere il libro con l’occhione in copertina. Prima di riprendere a voltare le pagine diedi un'occhiata dalla finestra che dava sull'ingresso: le strade erano nude e silenziose come le notti di Haddonfield in Halloween. Mi sedetti di nuovo sulla poltrona e ripresi la lettura di quel brossurato, l'azione nel mio cervello venne colta come se avessi ripreso un amplesso con una ragazza che si fosse concessa dopo mesi di corteggiamento. Un mix di erotismo e passione irrefrenabile.
Il proseguo del libro fu una settantina di pagine bianche e vuote, nessuna illustrazione, nessuna parola e nessun appunto. Dopo la pagina numero 113 sparivano addirittura i numeri negli angoli in basso.
«Libro d’arredo, cento su cento.»
Ebbi il tempo di concludere la mia acuta osservazione che da una delle pagine spuntò fuori un foglio ripiegato e che scoprii immediatamente incollato al volume, come le mappe nei libri di Tolkien.
Lo aprii e anch'egli si presentò bianco e incolume.
Emmanuelle si avvicina, i capelli bruni hanno un profumo floreale. Prende la mia mano destra e l'appoggia sul suo ventre. Mi sussurra alcune parole, in francese.
Rinvenni nuovamente, proprio come poco prima. Il foglio incollato alle pagine ora era completamente spiegato, riusciva quasi a toccare terra, credo sfiorasse il metro di lunghezza.
Decisi di andare a rinfrescarmi il volto con dell'acqua gelida e di lasciare perdere il libro con l’occhione in copertina, ci avrei pensato nei giorni successivi.
Fu lì che iniziai a delirare: sbraitai di Emmanuelle, del figlio che non avremmo mai abbracciato e che non avremmo mai visto crescere. Di come la mamma sapesse cucinare strane ricette con la salvia, di come la zuppa russa si adeguava bene al sapore della vodka, al Declino Futurista ingurgitato durante un sabato sera autunnale.
Un delirio indotto dal libro.
Un delirio indotto dall'occhione in copertina.
Un delirio indotto dalla morte.
O dalla vita.
Zamu (@mister.zamu)
Parole estratte:
Pollo Cappello Galleggiante Cioccolato Scarpa C'era una volta un pollo di nome Juanin, che amava indossare un cappello a cilindro e fare lunghe nuotate nel mare con un galleggiante a forma di tartaruga. Era un buon pollo, anche se a volte un po' bizzarro. Un giorno, mentre si godeva il sole sulla sua tartaruga galleggiante, Juanin vide qualcosa di meraviglioso fluttuare in mare: era una barca carica di cioccolato! “Devo andare ad esplorarla subito!” pensò.
Senza pensarci due volte, Juanin saltò dalla tartaruga e iniziò a nuotare verso la barca, trascinando il galleggiante dietro di sé. Ma appena raggiunse la barca, Juanin si accorse di un problema: i cioccolatini erano troppo alti per lui! Non era ancora un pollo bello cresciuto, in effetti non prendeva mai steroidi.
Non volendo arrendersi, Juanin prese una delle sue scarpe magiche e la trasformò in una scala per raggiungere i cioccolatini in cima alla barca. Ma proprio quando stava per afferrare il suo primo cioccolatino, perse l'equilibrio e cadde in mare, perdendo anche la sua amata scarpa.
Anche i cioccolatini erano tutti caduti in mare dal bordo del barca, venendo perduti per sempre. “CHE SFIGA MADOI, SONO UN POLLO SFIGATO.” Urlo ai quattro mari.
Ma quando arrivò sulla spiaggia, trovò un gruppo di coniglietti, chiamate le Juanite, che gli proposero di scambiare il cioccolatino per una carota gigante. Juanin accettò immediatamente lo scambio e tornò a casa felice e soddisfatto, con una grande carota in mano. “Almeno c’è il premio di consolazione, non è molto, ma è un premio onesto”.
Da quel giorno, Juanin decise di lasciare il cioccolato agli umani e di dedicarsi interamente alla ricerca di carote giganti, continuando a nuotare felicemente con la sua tartaruga galleggiante.
E se qualcuno gli chiedeva della sua scarpa mancante, Juanin rispondeva sempre con un sorriso: "L'ho persa in mare, ma almeno ho trovato una grande carota! In effetti, A volte la vita va di merda, ma è dalla merda che nascono i fiori!”.
𝐷𝜇𝜌𝑙𝜀𝜘 𝜌𝜎𝜀𝜏𝜄𝑐𝛼
13 marzo 2023 - 27 marzo 2023
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